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LA TREGUA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 maggio 1997
 
di Francesco Rosi, con John Turturro, Massimo Ghini, Teco Celio (Italia, 1997)
 
C'è uno squilibrio di base, in questo film: che spiega le reazioni contrastate, e spesso eccessive che suscita.

C'è, da un lato, un dramma cosi immenso da apparire inafferrabile come quello dell'Olocausto. Ed il mito di un itinerario esistenziale, di una testimonianza, di un libro, dell'arte di uno scrittore come Primo Levi.

Dall'altro, una produzione internazionale, delle riprese impegnative in Ucraina, un regista glorioso, lucido, politico; e settantacinquenne. Di conseguenza: una struttura narrativa, un modo di concepire il cinema che riflette questi elementi oggettivi.

Ci sono delle tragedie assolute dell'uomo che rimangono impossibili da raccontare, da materializzare, da mercificare. Quasi che (o perché d'indicibile, abissale irrazionalità; d'insopportabile dimensione per la nostra vergogna collettiva; o, più semplicemente, perché troppo recenti per essere storicizzate) l'Uomo temesse di rimuovere quei confini misteriosi ed inquietanti che si porta nell'intimo per distinguerlo dalla Bestia.

Certo, c'è stato NOTTE E NEBBIA. Ma era la riflessione di uno dei soli cineasti capaci di far opera di riflessione sul trascorrere, appunto, del tempo, Alain Resnais. Ci sono stati i documentari, SHOAH. E pure le finzioni, come IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI: ma che decidevano di fermarsi ai limiti della descrizione, al momento di illustrare ciò che la memoria dello spettatore rifiutava di materializzare.

C'è stato infine, mi si obbietterà, SCHINDLER LIST. Ma questa è l'opera del più americano dei registi americani dopo John Ford. Di un geniale, quasi incosciente bambinoide. Al quale riesce di sovrapporre i personaggi di una favola, i momenti di un western (ricordate il comandante del campo, che dal balcone di casa sua si diletta ad uccidere a caso chi gli capita sotto tiro?) alla descrizione dell'orrore. E di far in modo che i due aspetti di questa oscena, assurda sovrapposizione non solo si rispettino. Ma, proprio a causa della loro precisa contrapposizione finiscono per valorizzarsi a vicenda, in perfetta complementarità dialettica.

Gli autori de LA TREGUA dovevano compiere, a modo loro, un ulteriore passo innanzi. Poiché dovevano rendere conto di quel "dopo" che costituisce il segreto più intimo del doloroso quanto prezioso messaggio della vita e dell'opera di Primo Levi. L'odissea dei sopravvissuti dei campi, da Auschwitz liberata dai russi fino a Torino, attraverso la Polonia, la Russia, la Germania. Ma, più ancora, l'incontro - dopo l'abisso - con il mondo esterno, la società degli uomini ancora ferita ma già irrimediabilmente "guarita", la contemplazione di una natura consolatrice, ancora incontaminata. La sequela delle ferite dell'intimo, quelle ancora più profonde di quelle della carne, poiché impossibili da sradicare per sempre. E la colpevolezza, la domanda angosciosa (perché io, perché non gli altri?) da portarsi egualmente appresso per tutta una vita.

Compito improbo, ai limiti del possibile, per il cineasta più sperimentato: obbligato a non celare nulla dell'evidenza materiale, a dover entrare nella spiritualità dei propri personaggi. Ora, quello che riusciva all'incoscienza favolistica di Spielberg (sovrapporre una visione di oggi a quella di ieri) non riesce all'impegno (civilissimo, lodevolissimo) di Rosi. La sua struttura narrativa non è soltanto vieux- jeu, costruita su una progressione drammatica scontata, su una messa in scena ormai quasi accademica. Ma, nel suo rispetto più che dignitoso della tradizione (ricreazioni di ambienti) coerenti, scelta e direzione di attori professional, ecc.) finisce per apparire controproducente. Quasi che la finalità di una costruzione professionale finisca per urtarsi alla grandiosa intoccabilità del dramma. La banalizzi, la strumentalizzi, la riduca ad un ennesimo, seppur rispettosissimo, spettacolo.

Quell'infinita successione di bei treni a vapore, che arrivano e che non partano quasi mai, rimangono dei bei treni. Quei fiumi, sulle rive dei quali i reduci sostano per una lunga estate in attesa del rientro, in sospeso nel loro carico di memoria ferito per sempre, soltanto dei fiumi. Una natura, un mondo esteriore che deve apparire insopportabile nella sua immutabilità a coloro che ritornano da un indicibile aldilà sono contemplati con bella maniera: ma senza che la corrente riesca a passare.

Peggio ancora: quei bambini nel bianco e nero della ricostruzione dei lager: ci si sorprende a trovarli in non troppo precaria salute. Poiché oggi, di cosi emaciati e disperati è difficile trovarne, probabilmente anche in Ucraina.


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